La voglia di mettersi in proprio
Cercasi uragano
forza 5 disposto
a spazzare via la
classe politica italiana,
non telefonare,
presentarsi ore
pasti Montecitorio
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ottobre 5, 2011 di Antonio
Ma che cosa sta accadendo nel nostro Paese?
Ora anche i ricchi si indignano e lanciano manifesti al grido di “Politici ora basta”, come Diego della Valle.
Non solo.
Per la prima volta, nella sua lunga storia, la Confindustria va allo scontro con il governo e cerca di supplire con le sue indicazioni alla inerzia e assenza di proposte che da tempo ormai sono l’elemento distintivo del governo Berlusconi.
Inoltre, Marchionne annuncia l’uscita della Fiat da Confindustria. Si tratta anche qui di una prima volta; e lo fa con una motivazione che non sorprende affatto ma rappresenta, anzi, la prova provata del fatto che Sacconi ha introdotto l’articolo 8 nella manovra contro i sindacati e la stessa Confindustria solo per compiacere la Fiat: Marchionne infatti spiega, senza giri di parole, che la Fiat non si riconosce nell’accordo di appena qualche settimana fa firmato da Confindustria e dai sindacati che, mentre conferma la validità dell’intesa del 28 giugno, pone anche paletti precisi contro il ricorso, previsto dall’articolo 8, allo stravolgimento ad libitum da parte delle imprese e di sindacati compiacenti sia dei contratti nazionali che dello Statuto dei lavoratori e delle leggi in generale.
Sono diverse dunque, e tutte di grande rilievo, le novità di queste settimane sul fronte confindustriale e dell’imprenditoria italiana.
E’ chiaro che, dietro di esse, c’è innanzitutto il fatto che anche per gli imprenditori italiani la situazione si è fatta insopportabile; e che la loro rabbia si è fatta ancora più grande nel momento in cui Berlusconi né dà risposte alle loro richieste né si tira da parte: è la rabbia di chi, a fronte del precipitare della crisi, si sente del tutto impotente dinnanzi a un personaggio che – come si dice dalle nostre parti – ni tresche ni spicce l’are (non trebbia e non sgombra l’aia).
Ma c’è solo questo dietro queste novità?
Non ne sono convinto.
E’ evidente che siamo arrivati ormai a un punto di rottura verticale tra il mondo delle imprese e questo governo; e che siamo alla fine di un rapporto che aveva visto finora la quasi totalità degli imprenditori italiani e le loro organizzazioni agire di conserta con il governo: essi vedevano in Berlusconi e nel berlusconismo il sol dell’avvenire liberista che avrebbe consentito ai padroni di riconquistare una egemonia forte – perduta nei decenni della prima Repubblica – sul mondo del lavoro e sulla società italiana e aperto la strada a nuove possibilità di profitto e, naturalmente, di crescita delle imprese e della economia in generale. Ci sono stati, in questi anni, anzi, addirittura momenti di una totale identificazione tra il potere berlusconiano e il mondo imprenditoriale, mettendo a tacere e comunque marginalizzando le poche voci critiche che ancora resistevano al richiamo del pifferaio magico.
Ma ora questa simbiosi si è rotta e il sogno che teneva insieme Berlusconi e il mondo delle imprese e che aveva la capacità di inverare reciprocamente le diverse aspettative, si infrange rovinosamente sotto i colpi della crisi e il re ne esce più nudo di quel che chiunque – ancora pochi mesi fa – poteva immaginare. Ecco allora che prende il sopravvento il disamore e scoppiano la protesta e l’indignazione; e che, in questa rottura di un collateralismo durato quasi venti anni, si producono anche contraddizioni, assai vistose e significative, tra chi vorrebbe continuare come prima (Marchionne) perché pensa di poter continuare a lucrare benefici sostanziosi e chi, invece, come appunto la Confindustria, ritiene che il sogno è finito e vuole evitare il Far West nelle relazioni industriali.
Ma, dietro la protesta e l’indignazione, emerge – anche qui per la prima volta – qualcosa che forse somiglia tanto alla voglia degli imprenditori italiani di giocare in proprio rispetto alle forze politiche in campo e di evitare in questo modo che, finito il berlusconismo, essi possano ritrovarsi nella condizione di dover fare i conti con forze e una idea di rinnovamento del Paese da cui – a torto o a ragione – non si sentono garantiti nei loro interessi di fondo.
A questo proposito, infatti, non bisogna mai dimenticare che il tasso di liberalismo della borghesia italiana è sempre stato molto scarso e che sempre – nelle varie vicende che hanno contrassegnato negli anni la vita del Paese – in essa ha sempre prevalso quello che una volta si chiamava l’istinto di classe e che oggi possiamo anche soltanto chiamare l’istinto della difesa del proprio particulare. E allora, cosa fare?
Semplice: mettere in campo al momento giusto propri uomini e, intanto, arare il terreno ricordando a tutti, anche perché il momento è propizio, che la politica è incapace e che i politici sono tutti uguali.
A questo punto, è chiaro che qualche riflessione in più sarebbe opportuna: non solo sul fatto che emergano – dal mondo delle imprese – nomi nuovi che si dicono pronti a scendere in campo e che Montezemolo sembra accelerare il suo materializzarsi come primattore sulla scena nazionale, ma soprattutto sul significato vero che ha, a prescindere dalle buone intenzioni, l’iniziativa di Della Valle e di quali contenuti essa si nutre.
Della Valle sostiene che, con la sua iniziativa, chiede solo una buona politica, sta di fatto però che, nelle cose che scrive, mette tutti nello stesso calderone e non fa distinzioni non solo tra chi governa – e non da oggi, e con una maggioranza mai vista – e chi sta all’opposizione, ma neppure tra le varie posizioni politiche e le proposte, assai diverse tra loro, arrivate per esempio in occasione delle recenti manovre fatte dal governo, sul modo di affrontare l’emergenza, le misure da prendere, la necessità di garantire l’equità, ecc.: in una parola, egli si muove con l’ottica propria di chi pensa e ripete continuamente che tutti i gatti sono bigi e ritiene che debba essere la società civile (e cioè il mondo che lui rappresenta, con l’aggiunta di un po’ di politici buoni) a prendere in mano il volante per uscire dalla crisi.
In quel che dice Della Valle non c’è, per la verità, niente di nuovo: anche l’Uomo Qualunque – un partito che ebbe una certa popolarità negli anni immediatamente successivi alla guerra – sosteneva che la politica è incapace e i politici sono tutti uguali, senza distinzioni tra maggioranza e opposizione, ecc. Solo che oggi il contesto è diverso: è tale oggi il degrado dello spirito pubblico e della politica che sono in tanti a pensarla come Della Valle e, se non stiamo attenti, proprio questo fatto può favorire chi tenta di utilizzare questo contesto per far passare soluzioni che non ci salveranno dalla crisi e dal declino.
E’ evidente che, se si ragiona come ragiona Della Valle, l’alternativa a Berlusconi non può nascere dall’interno della politica e, comunque, non è la politica che può portarci fuori della crisi. C’è bisogno, invece, di un nuovo Berlusconi, un Berlusconi buono questa volta, che provenga anche lui dalla società civile ma che non si porti dietro i vizi, l’inconcludenza e l’inaffidabilità di quello attualmente in carica e ne incarni invece le virtù migliori.
Ecco, dunque, il punto!
Naturalmente Della Valle è libero di proclamare le sue verità e cercare di farle prevalere nell’opinione pubblica, in un momento che è cruciale per il futuro del Paese. Ma, pur sapendo che queste sue verità partono da una realtà che è davvero profondamente deteriorata, tuttavia non si può – come fa lui – intanto non distinguere – anche sul piano delle responsabilità – tra i diversi attori in campo, e soprattutto non chiedersi se è questa la lezione da trarre da questo ventennio dominato da Berlusconi e se, quindi, è questa la ricetta buona per superare la crisi e ricostruire il Paese.
Questa è la domanda che ogni cittadino, dotato di memoria e di buon senso, oggi dovrebbe porsi. E forse, riflettendo su questi anni così nefasti per l’Italia, scoprirebbe che una delle ragioni di fondo che stanno alla base dello sfascio attuale è proprio l’assenza della politica nel senso indicato dalla Costituzione e, con essa, la scomparsa dei partiti che sempre la Costituzione – all’articolo 49 – individua come gli strumenti-principe per consentire ai cittadini di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Oggi, i partiti politici in realtà non esistono, mentre di partiti veri – come ce ne stanno in tutta Europa – noi avremmo bisogno; e il loro posto è stato occupato da quelli che vengono chiamati i leaders, che dispongono – anche per effetto del porcellum – di un potere che gli consente di controllare il Parlamento e del quale non debbono rendere conto a nessuno. Anzi, sia a destra che a sinistra – con la sola eccezione del PD – quelli che impropriamente vengono chiamati partiti si definiscono e si distinguono tra loro innanzitutto per il nome del leader che li capeggia.
E’ questo il dato di fondo che caratterizza gli ultimi 20 anni della nostra vita politica nazionale e che sta alla base di tutto quello che in questo ventennio è accaduto: dalle distorsioni e curvature populistiche della nostra Costituzione all’assenza di ogni forma di partecipazione popolare alle scelte, dalla inattualità e assenza di ruolo – anzi, insignificanza – dei partiti al degrado senza precedenti dello spirito pubblico e del senso civico fino al dilagare della corruzione organizzata per cricche, alla perdita di ogni senso di pudore in chi gestisce il potere e all’inconcludenza della politica con le inevitabili conseguenze sulle relazioni sociali e l’economia.
Ma, se di questa fatta è la colonna sonora che ha scandito la nostra vita nazionale in questi anni di berlusconismo e se proprio di questa assenza della politica e degli strumenti previsti dalla Costituzione si è nutrito ed è prosperato il berlusconismo, che senso ha allora proporre di nuovo di percorrere la strada di un nuovo salvatore della patria che, per giunta, dovrebbe innanzitutto salvaguardare gli interessi della corporazione di provenienza?
Come ha ricordato in questi giorni Giorgio Napolitano, la politica siamo tutti noi; e lo siamo se partecipiamo e ci sono gli strumenti per partecipare, se la politica non è piegata alla volontà di un uomo solo al comando e del gruppo di persone che costituiscono la sua corte, se la politica è un fatto collettivo e si fa interprete degli interessi di tutti.
Uscire dal berlusconismo significa, quindi, innanzitutto e soprattutto questo; e bene fa, da questo punto di vista, Bersani a ribadire ogni giorno la unicità del PD nel panorama politico italiano: il PD ha tanti difetti, deve radicarsi ancora di più nel territorio e interpretare sempre meglio i bisogni e le aspirazioni al rinnovamento dei cittadini e acquisire anche sempre di più la capacità di discutere al suo interno senza darsi – almeno nei momenti cruciali – la zappa sui piedi, ma è l’unico partito che non ha un padrone e sul cui simbolo non campeggia il nome di nessuno.